Se la regola dei cenoni segue i piatti a base di pesce, quella del pranzo di Natale e del primo giorno dell’anno, invece, vede la presenza di carni, di piatti più sfarzosi e di una buona dose di inventiva con il riutilizzo delle rimanenze del gran cenone. Il Meridione è stato da sempre paladino del recupero e della tutela delle tradizioni ed è proprio ciò che cercheremo di fare, pensando ad un menu che rappresenti tutta la parte bassa dello stivale, attraverso il racconto dei piatti tipici che compongono questi due importanti pranzi e con gli abbinamenti di vini provenienti dalle singole regioni.
Partiamo con gli antipasti, ricchi, abbondanti, che nel giorno di Natale e in occasione del pranzo di Capodanno, per molti rappresenterebbero già un banchetto completo.
Il primo antipasto ci conduce in Sardegna. Avete mai sentito parlare delle Orziadas? No? Vi racconto subito di cosa si tratta. Sono anemoni di mare, che nonostante i loro tentacoli urticanti, hanno un’eccezionale sapore salmastro. Bisogna solo stare attenti nel pulirli perché rilasciano una sostanza che a contatto con la pelle, brucia parecchio. Basterà usare dei guanti e potremo godere di tutto il sapore di mare che portano con sé. Vengono impanati e fritti e serviti con pepe e limone. In abbinamento andremo di Vermentino di Sardegna DOC “Costamolino” di Argiolas. Prodotto nella zona collinare di Pranu Sturru-Suelli, Costa Bancodi e Perda Campus-Selegas è il compagno ideale per gli aperitivi di mare grazie alla sua estrema bevibilità corroborata da una piacevole freschezza.
L’altro antipasto lo gustiamo in Abruzzo e anche in questo caso il nome è particolarissimo: le scrippelle ’mbusse. Si tratta di crespelle, le crepes, più leggere di quelle tradizionali perché preparate con l’acqua al posto del latte. Ma ciò che riporta la bilancia in pareggio, e anche oltre, è dato dal fatto che una volta pronte, vengono cosparse di formaggio grattugiato, arrotolate e immerse in un brodo saporito, solitamente di gallina, tacchino e manzo. In abbinamento alle scrippelle ‘mbusse ci abbiniamo un rosato ottenuto da uve Montepulciano, il Cerasuolo d’Abruzzo DOC di Villa Medoro, il cui nome deriva proprio da questo suo colore rosa "cirasce" (che in dialetto abruzzese significa ciliegia). Un vino definito da sempre un “rosso mascherato” per le sue caratteristiche di complessità e intensità e che ci consentirà di controbilanciare la semplicità delle crespelle, ma allo stesso tempo la struttura maggiore del brodo e del parmigiano, seppur senza eccedere.
E passiamo ai primi...ebbene, qui si va in Campania, perché ci aspetta uno dei piatti più antichi della storia culinaria di questa regione: signore e signori, la minestra maritata. Seppur da qualcuno prescelta anche nel giorno di Santo Stefano, resta il fatto che non è Natale senza di essa, consumata anche come primo “di apertura”, nell’attesa degli altri. Di un piatto simile ne parlava già Apicio duemila anni fa nel suo “De Re Coquinaria”, ma in epoche più recenti è stato assimilato al “pignato grasso” - un piatto a base di maiale e verdure, cotto in una pentola di terracotta, detta, appunto “pignatta” - e alla “olla podrida” risalente al periodo della dominazione aragonese a Napoli, del 1300. Fatto sta che la minestra maritata è davvero una delizia e vede l’utilizzo di scarulelle, verza, cicoria, torzella riccia, borragine e broccoletti neri, il tutto maritato con la carne di manzo, gallina e maiale. Qui la complessità aumenta e si passa decisamente a un bel rosso, di buon corpo, ma non eccessivamente strutturato. Ed ecco, quindi, il “Cardamone” Costa d’Amalfi Doc dell’azienda Reale: un vino prodotto a Tramonti e ottenuto da uve Piedirosso all’80% e un saldo del 20% di Tintore. Proprio ciò di cui avevamo bisogno; un buon corpo e un tannino presente ma non prevalente, per sgrassare senza coprire la nostra minestra.
Per l’altro primo ci spostiamo in Basilicata, con una ricetta di chiara matrice contadina. Si tratta della “cucciva”, che deriva da “cuocci”, dal greco “còcos” che significa chicchi. Molte famiglie, infatti, preparavano questa zuppa per il pranzo di Capodanno, fatta con tutti i prodotti dell’orto: ceci, mais, orzo, fagioli, e grano bollito, con la cotica, le orecchie e il piede di maiale ripieno. È un omaggio alla cultura contadina e ai piatti poveri che ci hanno arricchito in tradizioni e ci hanno insegnato ad impreziosire anche le cose più semplici. Pochi dubbi sull’abbinamento: un immancabile Aglianico del Vulture, non troppo di annata e che risulti di corpo senza strafare. Ecco perché preferiremo una bella versione di Vulture DOC con il solo affinamento in acciaio, il “Labellum” di Vitis in Vulture. La sua struttura conserva, al contempo, una piacevole bevibilità e ci consentirà di sgrassare il palato dalla presenza del maiale, senza risultare eccessivo per la tendenza dolce dei cereali e dei legumi.
Passiamo ai secondi e andiamo in Molise, dove troviamo la trippa con le verdure. La famosa frattaglia viene insaporita con piselli, fave, patate, carote e cipolle. Un secondo che contrariamente a quanto possa far pensare il nome, limitatamente alla trippa, è altamente proteico con circa il 75% di acqua, il 18% di proteine e solo il 7% di grassi. Ecco perché ci abbineremo un bel rosso molisano, ma anche in questo caso non eccederemo con alcool e tannino. Sceglieremo, pertanto, una Tintilia del Molise con un lungo, ma esclusivo, affinamento in acciaio: il “Lame del Sorbo” di Agricola Vinica. Un vino che deve il nome a un sorbo secolare, che fermenta spontaneamente con lieviti indigeni e che ci consentirà di gustare tutto il frutto di questo vitigno, senza appesantire la beva su un piatto non eccessivamente complesso.
Per l’altro secondo, invece, ci spostiamo in Puglia e ci ritroviamo di fronte ai turcinieddhi, detti anche gnummareddhi, involtini di animelle di agnello: fegato, polmone e rognone arrotolati nel budello naturale e impreziositi con aglio e prezzemolo. Un piatto così antico si abbina anche per storicità e, allora, spazio al Castel del Monte Riserva “Vigna Pedale” dell’azienda Torrevento. Un Nero di Troia in purezza affinato per 12 mesi in botte grande e che esalta le caratteristiche di eleganza, struttura e persistenza di questo straordinario vitigno autoctono pugliese.
Il nostro pranzo si avvia a conclusione, ma non senza averlo prima “alleggerito” un po’ con qualche contorno. Andiamo nel Lazio e troviamo i famosi e buonissimi carciofi alla giudia, il classico “romanesco” che si raccoglie da dicembre a maggio. Le mammole di questo ecotipo, più morbide e adatte, saranno immerse nell’olio e alla fine doneranno un “fiore fritto” gustosissimo. Non azzardiamo troppo con l’abbinamento e andiamo sul sicuro con il bianco di Frascati "Terre dei Grifi", ottenuto da uve Malvasia Bianca di Candia, Malvasia Puntinata e Trebbiano, dell’azienda Fontana Candida. Un vino che ci servirà ad accompagnare senza creare “tensioni” tra l’astringenza del carciofo e il fritto che avrebbero potuto stridere con i tannini di un rosso.
Ancora un contorno e questa volta andiamo in Calabria, dove troviamo i broccoli calabresi - detti anche ramosi per la quantità di piccoli rametti - saltati in padella con il re della cucina di questa terra: il peperoncino. Proprio la forte presenza di quest’ultimo non ci consentirà di azzardare troppo e abbineremo un piacevole Cirò Bianco, ottenuto da uve Greco Bianco dell’azienda Librandi.
E siamo arrivati al gran finale. Non possiamo fermarci sul più bello, ci dirigiamo in Sicilia, la patria dei dolci. Qui troviamo il buccellato siciliano, il re delle feste della Trinacria a base di pasta frolla ripieno di fichi secchi, cioccolato, frutta secca, cedro, arancia candita, uvetta e zuccata, che sarebbe una zucca candita. Si presenta, nella versione più tradizionale, come una ciambella, la stessa forma di un pane che veniva preparato nell’antica Roma nei periodi di festa e chiamato “buccellatum”.
L’abbinamento in questo caso ci delizierà definitivamente, facendo chiudere il nostro pranzo nel migliore dei modi: un bel calice di Malvasia delle Lipari dell’Azienda Hauner, un cognome dovuto alle origini boeme del titolare, cresciuto a Brescia e trapiantato nelle Eolie. Qui, a Santa Marina Salina nella parte più ad ovest dell’omonima isola, produce questo vino ottenuto con il 95% di uve Malvasia di Lipari e un 5% di Corinto Nero, appassite per venti giorni sui cannizzi e dai sentori di fichi secchi, datteri e miele. Un vino dotato di grande profondità e mai stucchevole, che regala davvero un infinito piacere di berlo.
Sembra poco, ma è racchiusa tutta qui la grandezza della nostra terra che riesce ad offrire mille sfaccettature diverse anche a pochi chilometri di distanza. Esposizioni, terreni e climi rendono davvero uniche tutte le regioni del nostro Paese e, in particolare, del nostro profondo Sud, terra ricca di storia, cultura, tradizioni e... calorie!